sabato 30 maggio 2009

Quando nell’estate del 1912 papà Antonio decide di rientrare in patria, Francesco non esita a fare due cose: presentarsi al trainer Vittorio Pozzo sul campo di calcio del Torino e segnalare ai carabinieri che se ci fosse necessità di militi egli è pronto. Il fisico è possente, rotondetto, al football ha imparato a giocare in Sudamerica, in squadra c’è bisogno di rinnovamento e di un centravanti.

Cisco entra fra i titolati, gioca e Pozzo non lo toglie più. Così lo ricordava: «Dal posto di centroattacco in cui aveva esordito non si mosse più. Per lunghi anni fu il classico perno della prima linea del Torino. Ad un certo punto della sua carriera si convertì in portiere e pure in questa posizione si distinse, per la prontezza d’occhio e la salda presa. Apparteneva a quella stirpe di giocatori che la nostra città ebbe in abbondanza in quell’epoca: gai, spensierati, allegri, buoni amici, amanti del buon vino e delle belle ragazze, ma tutti d’un pezzo sul campo, decisi, energici, volitivi.
Parlava uno strano piemontese che aveva appreso dai parenti in Argentina».

I gol erano la sua passione: 55 su 52 gare ufficiali di campionato come attaccante, anche se computando tutto, gli uni e le altre si raddoppierebbero, considerati i match amichevoli e i tornei. Un granata a tuttotondo, con una passione che gli ha fatto sfidare anche un menisco scassato pur di restare in campo da portiere.

E dopo ogni gol una risata; sempre Pozzo, suo estimatore, aggiunge: «Crediamo che abbia riso, così per reagire alla tragedia, anche quando all’8° Alpini, i tedeschi lo presero prigioniero in Carnia, alla ritirata di Caporetto».
Già, anche la guerra e la vita in pericolo, la testa a casa, ai fratelli, al Toro. Il pensiero alle partite, alle sfide, alle reti segnate. Un conto particolare quello servito all’antica squadra cittadina del Piemonte, destinata a sfaldarsi nel 1914.

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