Bosia ha ben chiara la realtà. Sa di non essere un campione, come certi suoi colleghi passati o presenti, che si esibiscono su altre piazze calcistiche, ed è lui il primo a riconoscerlo, con un esercizio di autocritica persino divertente, quando si lascia a simpatiche dichiarazioni in piemontese del tipo, tradotte: «Non sarò un campione, ma quando è ora di acciuffarla, la palla, la cosa non vi viene tanto male; e, fino a prova contraria, a un portiere è questo quel che si chiede». Insomma, in mezzo ai pali se la cava egregiamente, quel tanto che basta per mantenersi caldo il posto di titolare per tanti anni in una squadra fatta da campioni.
Quel primo, oggi antico, grande Torino di Antonio Janni e del “trio delle meraviglie”, Baloncieri.Libonatti-Rossetti.
Veder scendere in campo Bosia era uno spettacolo. Si presentava tutto bardato, come un cavaliere medievale che si appresta alla battaglia. I calzettoni ben distesi, fermati appena sotto il ginocchio; due ampie e ben imbottite ginocchiere; calzoncini larghi e abbondanti, generosi, per non essere impedito nel movimento; un pesante maglioncino nero o grigio, sovente addobbato con un collettino in tinta e, dulcis in fundo, un’elegante coppola, con una lieve visiera in aggetto. I guanti, poi, assolutamente di rigore, anche se più simili a quelli normali, in cuoio, da passeggio che agli strumenti di un portiere. Questa la forma, l’apparenza, garantita per ogni match. Non altrettanto si poteva dire per la prestazione in campo che non sempre risultava cristallina. Un motivo, autentico, c’era.
Fra gli Astigiani, dove era calcisticamente cresciuto, non c’era tanto tempo per apprendere i cosiddetti fondamentali e così “Censin” si era fatto da solo; era diventato un buon portiere strada facendo. Una cosa però non gli mancava mai, il dinamismo fresco e continuo e un’agilità a volte sorprendente, tanto da farlo rassomigliare ad un folletto dei boschi, considerata anche una statura per nulla importante. Buona anche la coordinazione, presente in ogni suo gesto.
La critica calcistica, non lo stimava tantissimo e sovente lo punzecchiava, proprio per via di quella sua immaturità tecnica, sopperita dallo slancio. Giglio Panza, bonariamente, scrive di lui: «Discreto portiere, coordinato, senza straordinarie risorse atletiche, ma dal felice piazzamento. Un regolarista». Vincenzo Bosia vive nel modo più completo l’intera epopea del Torino di Marone Cinzano.
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