giovedì 2 luglio 2009
MARIO RIGAMONTI
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RIGAMONTI MARIO (Brescia 17 dicembre 1922 – Superga 4 maggio 1949)
Presenze in granata: 140 - Reti in granata: 1 – Presenze in Nazionale: 3
Dalla Taurinia al Torino, come a dire un destino obbligato. Rigamonti è lombardo, ma la sua vita diventa torinese per via di un collegio severo, il Ricaldone. Il carattere, per niente docile, ha bisogno di essere tenuto a freno e, a questo fine, niente di meglio di qualche paterna bacchettata dispensata da educatori religiosi. Per fortuna che tanta esuberanza trova sfogo nel football a cui Rigamonti si applica con slancio e passione.
Non ci vuole molto, pur nelle partitelle fra compagni e nelle prime apparizioni in qualche torneo cittadino, a suscitare l’interesse degli osservatori del Torino. Implacabili, come falchi sempre in agguato, degni successori della mitica scuola di Karl Stürmer, i talent scout granata incrociano la piazza senza stancarsi mai di partite e sfide giovanili.
Al pari di Maroso, anche Rigamonti cade nella rete delle osservazioni scrupolose di Mario Sperone. Il rapporto è positivo e parla di grinta e scatto, rapidità e bella prestanza fisica. Passare al Toro, in questi primi anni Quaranta, diventa così il lineare, ineluttabile percorso di Rigamonti, che incomincia a respirare l’aria del Filadelfia e a fraternizzare con i tanti campioni che vi giocano.
| Una vita in granata |
Fa già parte della rosa allargata della prima squadra nell’ultimo campionato regolare disputato prima della sospensione della guerra. Le rare fotografie che lo rivelano già in gruppo lo mostrano imberbe e felice, in attesa che venga il suo turno. Non ci fosse la guerra arriverebbe presto la prima chiamata in squadra, ma tutto è complicato dal conflitto. Nel campionato di guerra Rigamonti sgranchisce i muscoli a Brescia e a Lecco, ma con la ripresa torna in granata. La campagna del presidente Ferruccio Novo prevede il ricambio pressoché totale della difesa. Gli antichi mastini recedono per lasciar spazio alle nuove leve.
Rigamonti viene inserito nel ruolo di centrale della difesa, quello che un tempo veniva chiamato il “poliziotto”, sempre alle prese con l’attaccante avversario più temibile e pericoloso, in genere il centravanti. Ma lottare è il suo pane preferito e non esita. Ai lati lo accostano Ballarin e Maroso, appena davanti formano dighe difficili da superare Grezar, Loik e Castigliano. Con lui passare non è facile. I tifosi – che lo chiamano sbrigativamente “Riga” – vedono nel suo fisico da corazziere l’immagine di una roccia. Conosce l’anticipo alla perfezione; la resistenza tenace, la caparbietà, lo scatto tempestivo e sul breve sono le doti più spiccate. Combattere su ogni palla è il credo da diffondere, si butta nelle mischie più accese. Tanto più si deve sgomitare tanto più sembra trovarsi a suo agio.
In casa juventina, proprio in questi anni, gli fa da contraltare Carlo Parola, il suo contrario: atleta elegante e raffinato, che gli contende il posto in Nazionale. Ma anche quello arriva e nel giorno più bello. Dieci sono i granata che Vittorio Pozzo schiera a Torino nell’amichevole contro la forte Ungheria e Rigamonti finalmente esordisce. Parola, titolare del posto, non ha fatto tempo a tornare dalla sfida internazionale fra Inghilterra e Resto d’Europa, selezionato come rappresentante italiano. La Nazional-Torino vince in zona Cesarini per 3-2 e Rigamonti assapora per la prima volta il gusto di una vittoria con la maglia azzurra. È felice e ci scherza su.
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Con Bacigalupo e Martelli compone il “trio Nizza”, un terzetto di scapestrati mattacchioni che passano da una battuta all’altra. Ma Rigamonti è il più faceto e Bacigalupo il suo bersaglio preferito. “Riga” parla sempre con grave serietà e “Baci” crede a tutto ciò che gli dice. “Sai, Valerio, il segretario Giusti ti ha cercato per consegnarti un premio speciale, per le belle parate di domenica…”. In un amen l’ingenuo portiere è in sede, in via Alfieri, bussa alla porta del segretario e reclama il dovuto. Poche parole e lo scherzo è smascherato, accompagnato da uno scoppio di … auguri, indirizzati a quella brava persona di Rigamonti.
Anche per questo “Riga” piace un po’ a tutti, in particolare al presidente Novo che a volte lo coccola come un figlio. Riesce persino a perdonarlo quando si presenta agli allenamenti con qualche ammaccatura provocata dalle cadute in moto. Quella della motocicletta è, dopo il calcio, la sua passione più viva. Smonta e prova, smanetta e parte, il tutto nella disperazione della dirigenza, timorosa di qualche incidente grave. Come quella volta, in estate, che era finito nelle acque del lago … ma per fortuna che sapeva nuotare!
Bizzoso e un po’ pazzo, come si conviene ai campioni di razza, non vede l’ora di essere convocato per i Mondiali di Calcio del Brasile, una terra che lo affascina e che sente vicina, un appuntamento che gli fu negato, Superga complice.
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PAOLINO PULICI
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PULICI Paolo (Roncello MI 27 aprile 1950)
Presenze in granata: 433 – Reti in granata: 170 – Presenze in Nazionale: 19 – Reti: 5
«La tua ora è arrivata, Paolo. È tempo di prendere il volo». Un augurio di poche parole, ma quanta emozione. Il mittente, infatti, non è “uno qualunque”, ma niente meno che il mitico Gigi Riva. È il 23 marzo 1969 e il Torino di Fabbri incontra il Cagliari.
Un marchio di fuoco, questo esordio, che non si cancellerà più dal ricordo di Pulici. Affinità quasi magiche, per questi due cannonieri: lombardi, taciturni, nati al calcio nelle file del Legnano, bomber d’istinto, arieti prepotenti. Ma il vero guru, il mentore di Pulici è stato Oberdan Ussello, il grande maestro di calcio.
Quando parlava del suo pupillo, quasi si commuoveva: «Scartato sbrigativamente dall’Herrera dell’Inter, secondo il quale Pulici avrebbe dovuto cambiar mestiere e dedicarsi all’atletica leggera, ma anche respinto dalla Fiorentina, Paolo aveva partecipato ad un provino tenuto a Coverciano e qui aveva ben impressionato il mio caro amico “Cinto” Ellena, che si era affrettato a segnalarmelo.
Certo, all’epoca, Pupi non mostrava grandi qualità tecniche, sulla palla era approssimativo; ma era fisicamente forte, inesauribile, coraggioso. Aveva ottimi numeri. Decidemmo di prenderlo. Il presidente Pianelli si affidò totalmente al nostro parere e così il ragazzo che sarebbe diventato il più prolifico goleador della storia del Torino, vestì la casacca granata».
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Nelle giovanili Pulici fa sfracelli. Segna reti a grappoli: destro, sinistro, testa, tacco, rovesciata, dribbling: potenzialmente non gli manca nulla, deve solo essere disciplinato. Ma per questo sembra che non ci sia tempo, la smania di utilizzarlo in prima squadra è forte. E il caso sembra dare il proprio consenso. Pulici infatti segna il suo primo gol in serie A già alla seconda esibizione e proprio contro quell’Inter che non lo aveva voluto. Il Toro esce da San Siro con un brillante 2-2. Al 7’ del primo tempo è proprio lui a pareggiare la rete di Facchetti.
Il dopo, invece, si fa duro, quasi drammatico. Nelle tre stagioni che seguono Pulici è un galeone possente, che veleggia nelle aree avversarie con cannoni dalle polveri bagnate: soltanto 8 reti, pochino per un fromboliere. Gli sembrava che il pallone fosse stregato, che le traiettorie seguissero all’improvviso una linea diversa dal quella voluta dal suo piede, andando a parare ben lontane dalla porta nemica. Insomma, una sorta di maledizione.
Ma era proprio così, oppure c’era sotto dell’altro? Per intuire l’inghippo ci volle l’occhio di un nuovo trainer, Gustavo Giagnoni. Decise che quel giovane attaccante avrebbe dovuto “ripassare” i fondamentali e così lo riconsegnò da dove era arrivato, al tecnico delle giovanili, Ussello che, ancora, ricordava: «La storia del ripasso fu, in realtà, il pretesto per rivedere alcune cose: non solo la tecnica di base, ma soprattutto far acquisire a Pupi la consapevolezza dei propri mezzi. In altre parole, fargli intendere che era bravo, che aveva tutto per diventare un giocatore completo, un cannoniere di razza».
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La terapia funziona. Dal campionato 1972-73 Pulici è un altro. Il bagno di umiltà, la presa di coscienza di sé, lo ha rigenerato. Vince il suo primo titolo di capocannoniere della serie A con 17 reti. Un trofeo prestigioso che si aggiudicherà altre due volte: nel 1974-75 con 18 reti e l’anno successivo con 21. Era dal 1946-47 che un giocatore granata non coglieva questa affermazione, dall’exploit di 29 reti a firma di Valentino Mazzola. Pulici diventa l’idolo della tifoseria, diventa “Pupi-gol” e “Puliciclone” per quel suo modo piratesco di assaltare l’area avversaria e di cogliere gol che strappano applausi e stupore.
Nasce anche la premiata dita dei “gemelli del gol”: lui e il ciociaro Francesco Graziani, destinato addirittura all’alloro mondiale. Con loro, sotto la guida di Gigi Radice, il Torino vince lo scudetto. È apoteosi per Pulici, che intanto si fa carico di incarnare nella sua figura tutto ciò che significa “essere del Toro”, appartenere al Toro, vivere da Toro. I tifosi lo amano di un amore incondizionato, gli perdonano tutto, anche gli sbagli più clamorosi. E lui, dopo un gol, sovente dichiara: «Sì, una bella rete, ma questo gol non l’ho fatto io, ma la curva Maratona, la bussola che mi indica la rotta verso la rete avversaria».
Come non voler bene a un campione così spontaneo. Forse troppo, tanto da essere penalizzato nell’ambito della Nazionale e persino del suo Toro che, appena Pianelli lascia la presidenza, si libera di lui con gran fretta. Lo aspettano la maglia dell’Udinese e poi della Fiorentina, ma in queste stagioni è la malinconia che prevale, non più il furore agonistico di quando vestiva il granata. “Ciao, Pupi, resterai sempre nei nostri cuori” echeggiano gli striscioni della tifoseria. Un grande.
| Profondo Granata |